il cosiddetto ottopermille e la laicità dello stato

Di Valerio Pocar, tratto da critica liberale

Il cosiddetto ottopermille, stabilito dalla legge 20.5.1985 n. 222, rappresenta una quota della contribuzione che lo Stato impone e si vorrebbe supporre che anche questa quota sia destinata a spese per servizi di utilità collettiva. Non è così. In forza della norma citata non per caso stabilita in esecuzionedegli accordi tra Repubblica italiana e Santa Sede conseguenti alla revisione del Concordato clericofascista del 1929 lo Stato concede ai contribuenti di destinare una quota delle imposte dovute per l’Irpef (appunto l’8 per mille) a una confessione religiosa, purché si tratti di una confessione con la quale lo Stato ha stipulato una “intesa”. Così accade che la confessione musulmana, la seconda per numerosità in questo Paese, non può essere destinataria della quota d’imposta, perché l’intesa non c’è.

Attualmente, sono dodici le confessioni religiose ammesse al beneficio, prima fra tutte, ovviamente, la Chiesa cattolica.Con questa norma lo Stato rinuncia a una quota dell’imposta che ad esso è dovuta e che dovrebbe impiegare per servizi di “pubblica utilità”. Qui sorge una prima domanda: le spese di culto, perché di questo si tratta, sono da ritenersi di “pubblica utilità”? La risposta può essere solamente negativa, se si tratta di uno Stato laico (se lo Stato non è laico, il discorso è bell’e finito e abbiamo già capito tutto).Qualcuno potrebbe dire che si tratta di una concessione di stampo “liberale”, con la quale lo Stato concede al cittadino contribuente di favorire la propria confessione religiosa. Non è affatto così, per vari motivi. Anzitutto, come si è detto, non tutte le confessioni religiose sono ammesse al beneficio, sicché vi è una discriminazione; secondariamente, l’opinione religiosa viene privilegiata rispetto ad altre opinioni, che non sono ammesse al beneficio…

La violazione del principio della laicità dello Stato e le discriminazioni, inoltre, sono aggravate da una norma specifica della legge istitutiva. Infatti, l’art. 47 statuisce che «in caso di scelte non espresse da parte del contribuente, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse». Ciò significa che l’8 per mille del gettito Irpef viene, comunque, destinato per l’intero alle organizzazioni religiose ammesse (con le quali lo Stato concorre su un piede di parità) quante che siano le scelte effettivamente espresse. La conseguenza è che, le scelte espresse dai contribuenti assommando mediamente a poco più dei due quinti, la Chiesa cattolica, a favore della quale si esprime mediamente circa solo un terzo dei contribuenti, ha ricevuto annualmente quasi i quattro quinti del gettito, pari nel 2017 (ultimo dato disponibile) a circa 985 milioni di euro. Non per nulla, all’avvicinarsi della scadenza della dichiarazione dei redditi, i cittadini italiani sono sottoposti a una martellante pubblicità da parte della Chiesa cattolica, volta a presentare nella luce migliore l’uso benefico della somma ricevuta. Ciò che la pubblicità non presenta in maniera corretta, tuttavia, è la reale destinazione dell’ingente somma, lasciando intendere che sia utilizzata per l’intero a scopi benefici. Nel 2017, però, solo 275 milioni sono stati destinati a interventi caritativi, mentre 361 milioni alle esigenze del culto (far funzionare l’organizzazione ecclesiastica) e ben 350 al sostentamento del clero. La pubblicità ingannevole ha suscitato qualche reazione e, negli ultimissimi anni, la Chiesa ha corretto il tiro, reclamizzando tutto il “bene” che possono fare i sacerdoti e i religiosi che si avvantaggiano della contribuzione...

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